Da un mito popolare dei Ladini, la parabola della sopraffazione: dal regno pacifico delle donne all’epoca della violenza, del profitto e della spada. Si tinge di nero, con immagini dark e tecnologia, il nuovo progetto della giovane Marta Cuscunà, che prosegue nella ricerca sulle resistenze femminili.
In un cupo scenario di guerra, al termine della battaglia, quel che resta degli eserciti diventa banchetto per i corvi. Inizia con una carneficina Il canto della caduta, il nuovo spettacolo della giovane, visionaria drammaturga e regista friulana Marta Cuscunà, – coprodotto dal Teatro Stabile di Torino – che parte da un antico ciclo epico per mettere in scena il canto nero della caduta nell’orrore della guerra. Il lavoro si ispira al mito di Fanes della tradizione popolare dei Ladini, minoranza etnica che vive nelle valli centrali delle Dolomiti. Si narra la fine del regno egualitario e pacifico delle donne e l’inizio di una nuova epoca del dominio e della spada. È proprio la guerra che provoca la fine del regno matrilineare e dei Fanes, costretti a rintanarsi nelle viscere della montagna in attesa che arrivi il tempo d’oro della pace. L’autrice risale dunque alla preistoria della civiltà europea e approfondisce la sua ricerca nella archeomitologia in cerca di chiavi di lettura del presente. «Attraverso l’antico mito di Fanes – spiega – Il canto della caduta vuole portare alla luce il racconto perduto di come eravamo, di quell’alternativa sociale auspicabile per il futuro dell’umanità che viene presentata sempre come un’utopia irrealizzabile. E che invece, forse, è già esistita».