Maestro del teatro di narrazione, Ascanio Celestini torna nel paesaggio urbano e umano di Laika con il secondo capitolo della trilogia dei disperati. Personaggi che vivono ai margini, come in una riserva indiana, per un grande affresco della periferia metropolitana, dimenticata e sofferente
Ai margini delle metropoli, ma anche ai margini dell’interesse del mondo, si muovono i disperati di Ascanio Celestini: barboni, zingari, ladri, alcolizzati, prostitute, immigrati, lavoratori invisibili, ragazzini abbandonati. Secondo capitolo della trilogia iniziata con Laika, Pueblo ci porta nella terra di nessuno di chi (soprav)vive al limite estremo della società, in una periferia che è la periferia di una città, ma anche di una nazione. La periferia dell’informazione, la chiama Celestini, quella delle persone di cui i media si occupano solo quando la loro vita si trasforma in notizia da cronaca nera. Maestro del teatro di narrazione, l’attore/regista/drammaturgo torna dunque nella desolazione delle periferie romane – nel suo Quadraro che ha fatto da set a Viva la sposa – con un nuovo intreccio di storie di ultimi, affresco di una periferia metropolitana sofferente. Il paesaggio urbano e umano è disarmante: il supermercato, il magazzino, la sala giochi, le strade asfaltate, i palazzoni, i marciapiedi bagnati di pioggia. C’è la giovane donna chiusa in casa con la madre; la barbona che vive nel gabbiotto del custode del parcheggio; lo zingaro di otto anni che fuma le sigarette; il facchino africano malato di videopoker; la barista che guadagna con le slot machine. Sono gli scarti di un’umanità che procede veloce e indifferente. Sono gli indiani della riserva (Che fine hanno fatto gli indiani Pueblo? è il titolo dello studio dal quale ha preso forma lo spettacolo) dei cui destini non importa a nessuno. Ad accompagnare il racconto, la fisarmonica di Gianluca Casadei.