SUMMER PLAYS
Sere d’estate al Teatro Carignano
15 giugno – 13 settembre 2020
Rassegna organizzata da
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale e TPE – Teatro Piemonte Europa
Al Teatro Carignano di Torino martedì 18 agosto 2020, alle ore 21.00, va in scena: MATER DEI di Massimo Sgorbani, con Giorgia Cerruti e Davide Giglio e la regia della stessa Giorgia Cerruti. Lo spettacolo creato da Piccola Compagnia della Magnolia sarà replicato al Carignano il 19 e il 20 agosto 2020 ed è consigliato ad un pubblico adulto. Mater Dei è inserito nella rassegna SUMMER PLAYS. Sere d’estate al Teatro Carignano organizzata dal Teatro Stabile di Torino e da TPE – Teatro Piemonte Europa.
Una madre posseduta dal dio, una gravidanza iperbolica che genera tredici figli dotati dei paterni attributi divini…tranne l’ultimo, un dio debole. Il testo di Sgorbani attraversa il mito deviandolo verso una scrittura postmoderna, immersiva e scandalosa. Uno spettacolo permeato di crudo lirismo, tra sacro e profano. Un flusso di parole laico, erotico, ipnotico, che oscilla instabile tra la paura di regredire nel Caos e l’affermazione del Mito.
Note della Compagnia
«Due anni fa – dichiara Giorgia Cerruti – la Compagnia conosce il drammaturgo Massimo Sgorbani, nascono un’amicizia e una curiosità reciproche e genuine. Il cassetto che custodiva l’opera – inedita e mai rappresentata – viene così aperto. Il testo di Massimo Sgorbani attraversa il mito deviandone gli esiti formali e contenutistici verso una scrittura postmoderna, immersiva e scandalosa. Il tema apparentemente distante – una madre posseduta dal dio, una gravidanza iperbolica e paradossale che genera tredici figli, tutti dotati dei paterni attributi divini tranne l’ultimo, un dio mancato, debole – si rivela occasione di eccezionale riflessione sull’odierna mortalità dell’amore, sulla rabbia diffusa che ingloba il nostro mondo contemporaneo, sulla violenza che surrettiziamente attraversa le relazioni. Un testo di eccezionale audacia e crudo lirismo, a cavallo tra sacro e profano. Un flusso di parole laico, erotico, ipnotico, che oscilla instabile tra la paura di regredire nel Caos e l’affermazione del Mito. Massimo Sgorbani ha il dono poetico, tratta la superficie delle parole come un alchimista che fa brillare la natura profonda dei metalli; la parola non è svilita a segno ma ci regala “l’ebbrezza dell’incomprensione”. Per noi attraversare quest’opera significa continuare dunque un cammino che da più di un decennio trova la sua vitalità in un lavoro immersivo dell’attore: un paesaggio scenico dai tratti antinaturalistici, dove le partiture vocali e fisiche inseguono una sintesi tra ricerca formale e densità emotiva. Un teatro che cerca di mettere al centro del lavoro un tempo sacro abitato da figure poetiche. Immaginiamo l’incontro con il pubblico come un momento rituale estraneo al quotidiano; un tempo “altro” in cui ci si riunisce – spettatori e attori – per cercare il vero nella finzione».
«Mater Dei – scrive Massimo Sgorbani – è nato quando, qualche anno fa, Roberta Torre mi chiese di scrivere un testo basato su una sua idea: quella di una donna madre di dodici dei. A quei dodici io ne ho aggiunto un tredicesimo, ed è intorno a quest’ultimo e, per l’appunto, a sua madre che si sviluppa la storia che andrà in scena. Il tredicesimo figlio non parla, o quasi. Dirà una sola parola prima che cali il buio finale, il silenzio, e non perché sia muto, ma perché, in qualche modo, è estraneo al mondo della parola. Quel mondo appartiene tutto alla madre che, forse reduce a sua volta da anni di silenzio, inizia a straparlare, raccontare. “Mythos”, mito, significa racconto, discorso, qualcosa che ha a che fare con la parola, la messa in forma verbale della realtà. Ma, curiosando nell’etimologia, il termine “mythos” attinge a una radice che rimanda al muggito, al verso animale non ancora fatto parola. Ecco, il tredicesimo dio più che altro “muggisce”. Parla pochissimo, come del resto tutti gli dei che si manifestano soprattutto attraverso atti. Perfino Dio, quello con la “d” maiuscola, è ben poco loquace, perfino lui, nel roveto ardente, parla per bocca di un angelo. E, sul filo del paradosso, affida il suo messaggio a Mosè, il balbuziente che con la parola ha poca dimestichezza. Sull’asse che dal silenzio passa al muggito e al racconto scorre il rapporto tra madre e figlio, tra la “mater” e il “deus” bisognoso di qualcuno che parli per lui, che lo racconti. Un dio nascosto, occultato, un dio ma forse la realtà stessa che, per diventare discorso, “mythos”, necessita di una rimozione. A ben vedere qualcosa di simile la diceva anche il signor Kant: la realtà, per essere intellegibile, deve essere, se non rimossa, “tradotta” (balbettata?), altrimenti rimane oscura. Ma la “traduzione” non dice mai fino in fondo la realtà, per rivelarla è costretta a “velarla” di continuo. Il caos, l’inesprimibile, il “cuore di tenebra” restano a fondamento di ogni possibilità di parola, e vanno di continuo nascosti e, se occorre, deportati affinché prenda vita il discorso, il racconto. Perché al dio muto subentri l’uomo parlante. E questo, per concludere, è il racconto di un figlio indegno della madre, o forse di una madre indegna del figlio. Decidano gli spettatori».