Se sentite qualcuno dire che giocare è una cosa seria, non fidatevi. Scappate.
Il gioco può essere divertente, emozionante, catartico, commovente, teso, a tratti ansiogeno — qualsiasi cosa ma mai, mai serio.
Perché è proprio nella sua mancanza di gravitas che il momento del gioco rivela la sua piena potenzialità, diventando il terreno ideale per uscire dalla rete di regole e informazioni che creano la nostra concezione del mondo presente ed esplorare i temi e le sensibilità di infiniti futuri possibili.
La pulsione alla base di questo meccanismo è quella che Girard chiama invidia mimetica: il desiderio di uscire da se stessi e diventare qualcosa d’altro. Questa spinta non è solo la spina dorsale dell’azione ludica, ma anche di quella teatrale, ed è lungi dall’essere l’unico punto di contatto fra queste due dimensioni.
L’interrogativo che i nostri argonauti sono chiamati a esplorare quindi è: può l’universo vastissimo ed infinitamente ramificato delle esperienze interattive aiutarci a capire in quali domini si muoverà il teatro di domani?
E soprattutto, come riuscire ad orientarsi in un campo non solo tanto diversificato ma in uno stato costante di vertiginosa evoluzione, che a ogni innovazione tecnologica subisce stravolgimenti paradigmatici?
Ad indicare un principio di rotta in questo oceano è la game designer Chiara Tirabasso, che chiarisce un paio di punti fondamentali.
Primo, che un gioco funziona secondo un insieme di regole note a tutti i partecipanti.
Secondo, che i giocatori collaborano o competono per ottenere un premio o ricompensa di sorta.
Terzo, che gli elementi appena citati non sono altro che note a margine, decorazioni. Che esistono interi approcci al gioco in cui la sconfitta è, se non un obiettivo primario, abbracciata e incoraggiata, le regole piegate, i premi ignorati.
Che il gioco è un’esperienza eminentemente umana. Chi ci si avvicina cerca, più di ogni altra cosa, emozioni umane: empatia, catarsi, connessione.
Armati di queste intuizioni gli argonauti iniziano a prepararsi alla settimana che verrà. Iniziano a sondare le potenzialità degli Alternate Reality Games, a ragionare su ucronie e distopie, a chiedersi quali piattaforme e media possano meglio adattarsi alla storia che vogliono raccontare.
Di fronte a loro, una sfida fondamentale: può un gioco essere un atto politico e, se sì, può veramente diventare un suggerimento per un umanesimo del futuro?
Giovanni Pigliacelli