Martedì 22 marzo 2022 alle ore 19.30 debutta al Teatro Carignano di Torino Il berretto a sonagli di Luigi Pirandello per la regia di Gabriele Lavia, che sarà in scena con Federica Di Martino e con Francesco Bonomo, Matilde Piana, Maribella Piana, Mario Pietramala, Giovanna Guida, Beatrice Ceccherini. Le scene sono di Alessandro Camera, le musiche di Antonio Di Pofi, i costumi sono ideati dagli allievi del Terzo anno dell’Accademia Costume & Moda di Roma, coordinatore Andrea Viotti.
Scritto in siciliano nell’agosto 1916 e poi trasposto in italiano, Il berretto a sonagli è uno dei primi successi di Pirandello ed è oggi considerato un vero classico della sua teatrografia. Gabriele Lavia, tra gli interpreti più appassionati ed efficaci dei testi del Nobel siciliano, distilla qui la carica eversiva del testo, intrecciando la versione dialettale a quella in lingua italiana e potenziandone la crudele comicità. È un espressionismo feroce e cinico quello che attraversa tutta la commedia, e disegna i confini di una società “malata di menzogna” attraverso uno sguardo lucido e attualissimo, che ci rivela le ipocrisie e le superficialità che troppo spesso regolano la nostra vita.
Lo spettacolo è prodotto da Effimera srl e da Diana OR.I.S e sarà in scena nella stagione in abbonamento dello Stabile fino a domenica 3 aprile 2022.
Note di Gabriele Lavia
Per Luigi Pirandello la vita è una “soglia” troppo affollata del “nulla”… E tutta la sua opera ruota attorno a questo “nulla” affollato di “apparenze”, di ombre che si agitano nel dolore e nella pazzia. Solo i “personaggi” sono “veri” e “vivi”. Il berretto a sonagli è una tragedia della mente. Ma porta in faccia la maschera della “farsa”. Pirandello mette sulla scena un “uomo vecchio”, uno di quegli uomini “invisibili”, senza importanza, schiacciato nella “morsa” della vita e, poiché è un “niente di uomo” è trattato come se fosse niente: «Oh che ero niente io?»
Questa “domanda disperata” nasconde la concezione di se stesso, torturata e orgogliosa, di un uomo dissolto nel “nulla” del mondo, un nulla affollato da fantocci, da pupi. Da fantasmi umani. Che spiano e che parlano. Parlano parole già “parlate”, consumate.
E sul nostro palcoscenico, “come trovati per caso”: un vecchio fondale “come fosse abbandonato” e pochi elementi, “come relitti” di un salottino borghese, e “per bene”, dove viene rappresentato un banale “pezzetto” di vita di una “famiglia perbene” o di una “famigliaccia per bene” che fa i conti con l’assillante angoscia di dover essere “per gli altri”, di fronte agli altri. Come se la propria vita fosse, per statuto, una recita per “gli altri” che sono gli spettatori ingiusti e feroci, della propria vita. Del proprio “teatro”.
Vita di uomini che non sono altro che un segno che indica il nulla, fatto di apparenze, di fantasmi, di tutto quello che l’“io” è per gli altri. È l’“essere-per-gli-altri” a prendere il sopravvento perché l’“essere-con-gli-altri” è comunque il nostro “essere ineludibile”.
Ciampa “scrive”, ha un mondo suo, ma solo di notte, di nascosto, come i delinquenti, quando “gli altri” dormono. Ma di giorno: «Io sono quello che gli altri dicono che io sia». Io sono la doxa, il “si dice”. È proprio il “si dice” ad “essere” la stessa sostanza identitaria del mio “io”.
È il “segno” della perversione del mondo degli altri. Quel “mondo degli altri” che percepisce il mio mondo come, appunto, il mio mondo (il mio essere) “appare” a lui, a quel mondo che “non” sono “io”.
Ma chi sono “io”? Chi è questo “io”? Questo “io” che è uno, nessuno e centomila. Questo “io” è “uno” con me stesso e “un altro io” con ognuno degli altri “io” che vivono nella “società dei pupi”: «Pupi siamo… Pupo io, pupo lei… Pupi tutti…»
Questo “io” è determinato, nel suo essere, dalle centomila interazioni sociali, amorose, erotiche, amicali che quelle “interazioni” contribuiscono a frammentare. È questo “io” fatto a pezzettini che non ha più scampo. L’unica speranza è difendere l’“io” dall’aggressione degli altri. Ma come?
Ciampa usa spranghe alle porte, catenacci, paletti per difendere il suo “io”. Ma non ci riesce.
È costretto a uscire, a “sporcarsi le mani”, direbbe Sartre. Esistere.
Ma esistere vuol dire “mettere in gioco” se stesso. E allora la “corda civile” e la “corda seria” non servono più. È la “corda pazza” che scatta. E scatta per tutti. Non si può difendere il proprio “io” dagli attacchi del mondo. Non è possibile uscire dal mondo, uscire da noi stessi. Se lo facciamo siamo morti viventi.