Il capolavoro di Čechov nella versione del 1895, precedente alla censura zarista. Un dramma delle illusioni perdute che è lo specchio del disagio esistenziale di un’umanità “fin de siècle”, sospesa tra arte e vita, in bilico sul precipizio delle grandi tragedie del Novecento. Con Elisabetta Pozzi e Stefano Santospago.
«Il quotidiano, più dell’eroico, contiene il senso del vivere», annotava Anton Čechov. Primo dei quattro capolavori che l’autore russo scrisse per il palcoscenico, Il gabbiano è – come Zio Vania – il dramma delle illusioni perdute. Nato negli anni inquieti in cui maturano le grandi tragedie del Novecento, anticipa temi cardine del teatro del secolo seguente. Nelle angosce, nei turbamenti, nelle sconfitte dei personaggi si agitano la complessità e la crisi esistenziale dell’uomo moderno. Attraverso l’intreccio di inutili passioni che lega la giovane Nina, il tormentato Konstantin, sua madre Irina Arkadina, celebre attrice, e il suo amante, lo scrittore Trigorin, viene rappresentata la fine di un’epoca, di un mondo. Il testo viene proposto, con la traduzione di Danilo Macrì, nella versione del 1895, non ancora sottoposta alla censura zarista. Nella sua regia Marco Sciaccaluga ha scelto di risalire filologicamente alle radici dell’opera. Nella soffocante immobilità fisica e morale di una tenuta di campagna in riva a un lago si muovono vite in apparenza senza senso, in un’altalena tra sogni e rimpianti, desideri e disperazione: uomini e donne che non hanno veramente mai vissuto. L’essenza del genio di Čechov, secondo Sciaccaluga, sta in questo, nella feroce denuncia del nostro nulla. Ma con la tenerezza di chi allo stesso tempo invita a compatire, ad amare questi esseri inutili che siamo.