Ogni separazione è un duello all’ultimo sangue, tragico e comico allo stesso tempo. Tra sarcasmo e disperazione un uomo e una donna si affrontano in una lotta verbale dura, crudele ma anche ironica.
Prematuramente scomparso nel 1999 a cinquantasei anni, l’israeliano Hanoch Levin è un autore molto rappresentato in Europa, meno in Italia. Il lavoro di vivere è uno dei suoi testi migliori: conflittuale, spietato, tra i più incisivi della sua copiosa produzione, commedia crudele e beffarda, dal ritmo secco e sincopato. Carlo Cecchi e Fulvia Carotenuto sono i due battaglieri protagonisti: incapaci di amare ancora, si sentono scaduti. Una notte l’uomo si alza inquieto, si interroga su chi gli dorma al fianco, fantastica su improbabili fughe con altre donne, poi infierisce sulla moglie, vomita rancori repressi, la butta a terra. Dal nulla spunta un visitatore, un amico: vuole un’aspirina, forse vuole solo parlare, ma è investito dal rancore dei due. Se ne va, non prima di aver dimostrato che è la paura della solitudine ad averli inchiodati per trent’anni l’uno all’altra, abbandonandoli alla loro amarezza, in una stanza da letto che è quasi un ring. Con punte di umorismo spietato, Il lavoro di vivere, è un testo solo apparentemente lineare, ricco di riferimenti interni, dal più scontato Pinter a Ionesco, Bernhard, Brecht: dalla miseria esistenziale però scaturisce la commedia, in bilico tra sarcasmo e disperata ironia. Il teatro di Levin non ha più spazio per gli eroi, ma per i perdenti con un vena poetica che li rende indimenticabili