Eugenio Allegri porta in scena il capolavoro del Nobel Dario Fo, a cinquant’anni dalla prima edizione. Il verbo delle “giullarate”, attraverso il nuovo grammelot, torna ad esprimere la sua deflagrante forza teatrale. Protagonista un pirotecnico Matthias Martelli, che spazia dal lazzo comico alla poesia, fino alla tragedia umana e sociale.
Era il 1° ottobre del 1969. Il futuro premio Nobel Dario Fo debuttò con la prima versione di quello che sarebbe diventato il capolavoro del teatro di narrazione: Mistero Buffo. Un atto unico composto da monologhi di ispirazione religiosa, riproposti in chiave fortemente satirica, concepito come una Giullarata popolare in una lingua inventata e onomatopeica, di ispirazione medievale e mescolata con i dialetti padani: il grammelot. Un’invenzione di straordinaria potenza teatrale. L’opera ebbe un successo popolare enorme, fu replicata migliaia di volte (persino negli stadi), conta numerose differenti versioni e integrazioni. Un atto di ribellione, un testo all’epoca “sovversivo”, un modello di satira politica che non smette di trascinare le platee. A sfidare l’iconico monologo, ormai considerato un classico del ’900, è Eugenio Allegri, regista di questa nuova produzione dello Stabile di Torino e ArtQuarium, che si affida al talento e alla maestria di Matthias Martelli. «Io e Matthias abbiamo fatto un patto – racconta Allegri – il Mistero Buffo sarebbe stato lo stesso che avevo visto interpretare da Dario Fo, a Torino, nel 1974, nell’Aula Magna della Facoltà di Lettere, a Palazzo Nuovo. Con quelle stesse giullarate e con quella stessa veemenza artistica». E così è stato. Dopo la versione applaudita l’anno scorso anche a Londra, alla Print Room at the Coronet, quella alterneranno di volta in volta le giullarate di Bonifacio VIII e Il primo miracolo di Gesù Bambino, già presenti nella prima edizione, «riviste e arricchite alla maniera dei commedianti dell’arte i quali rinnovavano continuamente la propria abilità». Solo in scena, il pirotecnico Matthias Martelli passa «dal lazzo comico alla poesia, fino alla tragedia umana e sociale». Con una satira che tocca in chiave buffonesca, come nelle intenzioni di Fo, le storture del nostro tempo.