Festival delle Colline Torinesi
Il Teatro Stabile di Torino da anni collabora all’organizzazione del Festival delle Colline Torinesi. Nel 2014 questa sinergia si amplia grazie ad un progetto comune dedicato alla creazione teatrale italiana contemporanea voluto da Mario Martone e Sergio Ariotti. Il focus Latella/Dante/Calamaro sarà l’inizio di un percorso destinato a valorizzare l’identità di grandi autori, attori e registi italiani d’oggi. È il giusto riconoscimento a questi artisti che rappresentano l’eccellenza teatrale italiana anche in ambito internazionale. Contemporaneamente il Festival e la Scuola per Attori del Teatro Stabile concorrono alla realizzazione del progetto Fabulamundi sulla scrittura drammaturgica europea. La diciannovesima edizione del Festival dellle Colline Torinesi si svolgerà dall’1 al 22 giugno.
ecco tre interviste a cura di Sergio Ariotti
ANTONIO LATELLA
Dopo il Servitore di due padroni in scena al Carignano a marzo, il pubblico torinese il 1 giugno potrà vedere Francamente me ne infischio: Twins, Atlanta, Black, Match e Tara, Premio Ubu 2013, una maratona teatrale in cinque parti ispirata a Via col vento di Margaret Mitchell. In scena all’Astra. Potrebbe esserci un elemento di continuità tra le tue due regie?
La cosa che forse può unire questi due lavori è sicuramente il tentativo di cercare di parlare una nuova lingua teatrale che si allontana dall’idea del teatro del novecento. Io non posso pensare che ancora oggi abbiamo bisogno di costruire delle stanze di cartapesta per illudere che esista una stanza. Tutto è sempre comunque finto, non credo nel realismo. I due spettacoli hanno questo che li unisce, la voglia di tentare l’esplorazione di nuovi linguaggi. Non subito ne capisci la grammatica, ma questa è l’opportunità che abbiamo in questo momento e che dobbiamo difendere. Soprattutto per aiutare il pubblico a capire che ci sono altre modalità di far teatro, che ci possono aiutare a star bene, non a stare peggio.
In Francamente me ne infischio, in particolare nella sua ultima parte Tara c’è una dialettica evidente tra il teatro e l’arte contemporanea. Che rapporto può esistere tra l’uno e l’altra?
Quello che mi è piaciuto in questo spettacolo è stato attraversare diversi linguaggi. Dare diverse proposte di lettura artistica. Per noi registi è molto importante stare nel tempo in cui viviamo e questo lo possiamo fare, ad esempio, grazie all’arte contemporanea, che parla il linguaggio del tempo che vive. Spesso in Italia si ha ancora difficoltà a capire che c’è tradizione, che c’è contemporaneo e che c’è moderno. Cose completamente diverse. Noi spesso diciamo questo è uno spettacolo “moderno”, ma nel dire moderno lo datiamo già. Contemporaneo è un’altra cosa. Il mio spettacolo attraversa diversi linguaggi e arriva all’installazione. Arriva a far pronunciare quelle parole che vengono un po’ abusate nel teatro d’oggi e ci fanno sentire alla moda: “performance”, “performer”. Ecco su questo io ho un po’ da ridire: la performance si chiama proprio così perché si fa una volta sola, non accetta la ripetizione, vive lì in quel momento, non nasce per essere ripetuta. Mi piaceva chiudere la serie di spettacoli di Francamente me ne infischio con un atto “quasi” performativo, per fare capire che nel momento in cui scegli una performance in teatro scegli più che un atto creativo un atto estetico. Ho voluto immergere le tre attrici in un atto estetico. Per assurdo la loro performance riporta al contemporaneo, come se fosse un’ antica fotografia.
Una donna volubile, dagli amori mai realizzati: come ci si può appassionare a Rossella di Via col vento?
E’ vero. La donna più capricciosa che ho conosciuto è Rossella. Avevo sei anni quando mia madre mi ha portato a vedere Via col vento, in un cinema di una volta con le sedie di legno, dove si poteva ancora fumare. Rossella in quel film stacca una tenda verde e si fa un vestito. Ho detto a mia madre: “mamma anch’io!”. Anch’io, volevo dire, mi faccio un vestito come lei, oppure anch’io voglio raccontare quelle storie.
Questo spettacolo nasce dal romanzo o dal film? Ma è pure un ritratto dell’America di oggi?
Abbiamo cercato di raccontare più cose. Però siamo partiti dal libro. E’ un libro spietato. Rossella è anche molto antipatica, estremamente razzista. Su alcune cose si può avvicinare all’America di oggi. Un’America che ha perso determinati valori. E di conseguenza li abbiamo persi noi. Se l’America era il nostro sogno, oggi l’Europa vive quel sogno al quadrato, quindi un incubo.
EMMA DANTE
Doppia presenza anche per Emma Dante nella stagione del Teatro Stabile di Torino e al Festival delle Colline Torinesi. Dal 29 aprile al 4 maggio con Le sorelle Macaluso alle Fonderie Limone, il 4, 5 e 6 giugno con Operetta Burlesca all’Astra di Torino.Le Sorelle Macaluso sono un po’ la tua Casa di Bernarda Alba: un interno o un inferno famigliare. Quello che mi ha sempre affascinato dei tuoi mondi chiusi è che la vita e la morte si confondono. Che vivi e morti stanno accanto e i morti muoiono tante volte.
Non si può tracciare un confine tra la vita e la morte, è impossibile descriverlo. E’ un confine ideale, non spaziale o geografico. Le anime dei vivi e dei morti coabitano all’infinito. Le persone non riescono a trovare una pace né nella vita, né nella morte. Questa condizione c’è in quasi tutti i miei spettacoli, anche quando non si parla direttamente della morte alla fine c’è sempre un po’ il dubbio se questi esseri sono esistiti veramente oppure non esistono.
Sei stata nel cartellone del Festival delle Colline Torinesi nel 2005 con Mishelle di San’Oliva. Ora lo sarai a giugno 2014 con Operetta burlesca. Tra quello spettacolo e questo c’è qualche continuità, ammesso che ci possa ragionevolmente essere?
Ci sono molte cose in comune tra i due spettacoli. Intanto uno degli attori di Mishelle di Sant’Oliva, il ragazzo Salvatore, Francesco Guida, “Ciccio” qui, in Operetta, è nelle vesti del padre. Ha fatto carriera… Quella era la storia di un padre e un figlio che non si capiscono, anche questa racconta, a un certo punto, del rapporto difficile tra un padre e un figlio. Salvatore andava “a battere” la sera con gli abiti della madre, adesso è il narratore-genitore. Molte cose in comune. Anche la storia del pigiama: perché il protagonista pure adesso passa quasi tutto il tempo in pigiama come in Mishelle. Solo la sera Salvatore si trasformava e andava a prostituirsi a Sant’Oliva.
L’altro protagonista di Mishelle purtroppo non c’è più…
Il padre di Mishelle era Giorgio Li Bassi. Lui purtroppo è mancato tre anni fa. In quest’occasione per ricordarlo usiamo uno dei suoi abiti, quello che metteva in Mishelle. Sì, c’è una grande parentela tra i due spettacoli.
Perché ti viene da raccontare storie di transessuali, travestiti, prostitute… Senti in loro un’umanità e una cognizione del dolore veri, più che in altre persone?
Sento che dentro di loro c’è un dolore, ma c’è anche una cosa che è come un sentimento di infantilismo. Sono infantili. Io adoro quei personaggi, quegli attori, che hanno mantenuto una regressione infantile. Il fanciullo. Questi personaggi che io racconto sono addolorati profondamente però in maniera infantile, per cui questo dolore non li annienta del tutto, comunque li rende vivi… In ogni caso, anche se è un dolore molto forte, sono vivi perché sono attaccati alla loro fanciullezza.
LUCIA CALAMARO
L’Origine del mondo è il titolo di uno scandaloso quadro di Courbet. L’ Origine del mondo di Lucia Calamaro pone tre generazioni di donne al centro dell’attenzione, tra nevrosi domestiche e psicanalisi. Ma è un affresco aspro del tempo in cui viviamo. Qualcuno ha scritto: una cosmogonia (con i suoi feticci).
Cosa ti stanno chiedendo quando ti chiedono se quello che fai come artista, siccome sei donna , e siccome le protagoniste sono donne, è al femminile? Che categoria è? Di che sguardo è rivelatrice? Come posso, ancora dare risposte a una domanda che non ha luogo di essere posta e che invece ,per faciloneria, sistematicamente ritorna?
Cosa significa parlare di teatro contemporaneo? Lo è solo in relazione al linguaggio espressivo, alla forma? Solo i registi allora sono contemporanei? E gli autori? Come si distingue il teatro contemporaneo da quello che si accoda alla tradizione? O non hanno senso queste categorie.
La regia ha da un pezzo la mia totale e radicale disistima. Mi sembra un’anticaglia novecentesca, non arriva al pezzo d’antiquariato. Non c’è nessun ingegno nell’ appiccicare corpi e spazi a un pensiero altrui. Contemporaneo non so, ma sicuramente molto più degno di interesse, è il pensiero, il discorso, il fondo. Oggi dovrebbero fare spettacoli solo quelli che hanno qualcosa da dire e la sanno dire, nel senso che solo chi sa dare una forma al proprio fondo merita per me attenzione. Registi da poltrone rosse o nere. In fondo entrambi profondamente interessati all’arredamento. In fondo drammaticamente poco avvezzi a un racconto del presente.