Marina Rocco e le altre interpreti sono ben lontane dalla Nora ibseniana, schiacciata dalla morale maschilista: a farne le spese, Filippo Timi, che ricopre tutti i ruoli maschili con l’unico destino di soccombere alle sue sfidanti.
Ci voleva Andrée Ruth Shammah e la sua capacità quasi pirandelliana di ascoltare le ragioni del personaggio per ripulire Nora Helmer dalle interpretazioni che l’hanno relegata, fin dal 21 dicembre 1879, al ruolo di vittima di un mondo maschile oppressivo e umiliante, spinta a una scelta femminista ante litteram così estrema da obbligare Ibsen a confezionare in fretta e furia un finale consolatorio per mettersi al riparo dalle critiche della benpensante borghesia norvegese. Ci aveva già pensato anche Luca Ronconi, affidando a Mariangela Melato un’altra possibilità in Nora alla prova, dando all’eroina almeno il conforto di una doppia via di fuga. Ma è con questo spettacolo che si chiarisce un aspetto già ampiamente presente nel testo originale: Nora impersona la rivolta della coscienza, ribadendo il diritto di scegliere il proprio destino senza delegare all’esterno (Dio o marito, poco importa), ribellandosi ai doveri di moglie non come risposta alla vigliaccheria maschile, ma per rivendicare il diritto all’autodeterminazione. Nora Helmer è una falena a cui nessun uomo resiste: una donna scaltra che opera in modo truffaldino come ha imparato dall’universo maschile che la circonda. E infatti tutti gli uomini in fondo sono uno solo: Filippo Timi, è alle prese con una serie di donne che ben poco hanno da invidiare a Nora per carattere e capacità di analisi.