Tre premi alla regia per Massimo Popolizio che fa muovere su un palcoscenico nudo lo sciame struggente dei “borgatari” di Pasolini. Un’umanità vivida e dolente per uno spettacolo preso d’assalto da un pubblico numerosissimo ed entusiasta. Drammaturgia di Emanuele Trevi.
Nato nel 2016, a quarant’anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini, Ragazzi di vita, con la regia di Massimo Popolizio, primo adattamento del romanzo per il palcoscenico con la drammaturgia di Emanuele Trevi, è diventato immediatamente un caso. Vincitore di tre premi alla regia (Ubu, Critica e Le Maschere), ha attirato una massa di spettatori entusiasti. Su un palcoscenico spoglio, che riproduce la povertà e il degrado delle periferie romane del secondo dopoguerra, Popolizio intreccia le storie dei giovanissimi “borgatari” che colpirono l’autore friulano al suo arrivo a Roma nel 1950. Riccetto, Lenzetta, il Caciotta, Amerigo, Begalone, Alvaro, Spudorato e gli altri, con le loro piccole vite fatte di espedienti, in cerca di qualche soldo e di passatempi per ammazzare la noia, sono l’affresco della povertà morale e materiale dell’Italia degli ultimi, degli emarginati, alla vigilia di un boom economico che, nella visione pasoliniana, è portatore di un benessere materiale che toglie l’innocenza. Una ventina di personaggi in scena, in un brulichio di corpi e di voci, in dialetto romanesco. «Una lingua inventata, artificiale», sottolinea Emanuele Trevi, così come viene percepita dal “narratore/autore” (Lino Guanciale) che è, come Pasolini, rispetto a quella realtà, uno “straniero”. L’allestimento di Massimo Popolizio porta dentro le giornate dei giovani sottoproletari, nella loro furiosa, impulsiva, struggente lotta con la quotidianità. «Una vitalità infelice, la loro. E la cosa più commovente in quest’opera – conclude il regista – è proprio la mancanza di felicità».