Del teatro ci mancano tante cose, forse tutte, anche quelle più piccole e fastidiose di cui ci saremmo sempre voluti liberare: il gomito del vicino troppo ingombrante sul bracciolo, la pettinatura esplosiva della signora di fronte, il rumore di quello dietro di noi che scarta una caramella o la luce biancastra di qualcuno che non ha spento il cellulare.
Rivogliamo indietro ogni ingrediente, per riuscire a ricreare quella spiritualità laica che non abita nessun altro luogo. Abbiamo bisogno della sua forza catartica per lasciare andare ogni cosa, e sentirci di nuovo liberi.
E non sarebbe bello, appena tornerà a essere possibile, farlo tutti insieme?
Ai ragazzi di Parabasi è stato chiesto proprio questo, di elaborare una chiamata collettiva, un messaggio alla nazione intera intesa come comunità. Avrà una durata di appena novanta secondi, e se questo non lo rende un compito semplice, senza dubbio lo configura come una possibilità di entrare nel cuore delle cose, per trovare ciò che più di tutto si vuole condividere con chi ascolta.
Eppure, la differenza tra mittente e destinatario è molto sfumata, perché, come è emerso dalla discussione tra gli attori: “noi siamo voi”, siamo ogni persona, senza differenza.
È per questo che il messaggio alla nazione non avrà l’illusoria pretesa di arrivare dall’alto o di alzare il volume della voce, sarà piuttosto – sotto consiglio di Claudio Fogu, il filosofo della storia che accompagna il gruppo –, un sussurro alla nazione.
Si tratta di qualcosa di molto leggero, ma che allo stesso tempo abbia la possibilità di amplificarsi attraverso una ricezione che preveda la libertà di cambiarne il senso e di passarlo oltre; ispirandosi a Jeremy Rifkin, l’idea è quella di creare qualcosa che sappia dare voce alle generazioni future. Non a caso, uno tra i più giovani attori nel gruppo ha suggerito come punto vitale del messaggio, il rapporto tra il teatro e la scuola: dove coltivarlo e come lasciarlo fiorire in quanto spazio in cui imparare a stare insieme. Lasciando così che il teatro sprigioni la sua forza rivolta sempre verso l’altro, mai esclusiva, forse il segreto dell’essere comunità.
Perché sì, come ha detto Federico Madiai, “ci sono altri modi per stare insieme oltre alla pandemia”. Anzi, tra le proposte c’è addirittura quella di recuperare questo stesso termine: il suo significato, in accordo con l’etimologia greca, significa qualcosa che è “di tutto il popolo”. E che possiamo scegliere non sia qualcosa di necessariamente negativo. Infatti, può anche riguardare un altro aspetto importante: non tanto il progresso dell’umanità, come ha notato Claudio Fogu, ma la costituzione del progresso dell’umanità.
“La prossima pandemia ce la scegliamo noi”, dicono i componenti del gruppo, sarà la coscienza teatrale. E nel frattempo, risponde Jurij Ferrini, oggi a teatro “la risata rimane nella mascherina, e quando torni a casa è tutta tua”.
Giulia Binando