Settimana tosta per il gruppo di argonauti guidato da Jurij Ferrini.
Il tempo per riflettere è finito, ed è arrivato il momento di produrre, di sistematizzare tutto il materiale concettuale raccolto finora in un unico, breve messaggio che possa arrivare sotto la pelle della nazione. Il problema di concetti astratti come quelli trattati dagli argonauti è però che hanno bisogno di spazio per respirare e rendersi accessibili, e novanta secondi di contenuto audiovisivo di spazio ne offrono decisamente poco – specialmente se si vuole essere comprensibili a chiunque sia in ascolto. Ma d’altronde la comunicazione è tale solo se il destinatario è nelle condizioni di ricevere ed abbracciare il messaggio, e questo gruppo non può lavorare che in una dimensione di pan dèmos, di qualcosa che appartiene a tutta la comunità. E quindi inizia il lavoro, doloroso ma necessario: tagliare, semplificare, chiarificare. Camminare sulla lama di rasoio dello snellire i concetti senza snaturarli. E nel tagliare, scontrarsi con un ultimo ostacolo concettuale.
La parola rivoluzione appare molte volte nelle bozze e negli appunti degli argonauti. Ma è veramente rivoluzionario il messaggio che stanno proponendo alla nazione?
Oppure sta solamente utilizzando l’estetica della rivoluzione, ma quello che propone non è altro che un ritorno al passato, ad una modalità di vita che ci è stato strappata?
In fondo rivoluzione indica il “mutamento radicale di un ordine”, una forte rottura con quello che viene prima, non una continuità.
Non sarebbe in questa ottica molto più rivoluzionario proporre qualcosa come l’abbandono della millenaria istituzione del teatro in persona, di rivolgersi a nuovi pubblici attraverso nuovi canali, di trovare per il teatro una nuova funzione che meglio si adatti a questa era della post-verità che stiamo vivendo?
Sì, ma anche no.
Perché è vero che, se andiamo nel merito della ricostruzione del rapporto fra teatro e mondo che deve avvenire nel post-pandemia, il mutamento proposto sarebbe più radicale.
Ma è anche vero che le cose esistono in più dimensioni che le mere condizioni materiali. Quella che gli argonauti propongono è un tipo di rivoluzione diversa, più silenziosa, più morbida: non nel merito ma nel metodo, nel modo il cui scegliamo di approcciarci alle cose. Una rivoluzione basata sulla presa di responsabilità di tutti gli attori coinvolti: operatori teatrali e pubblico, chiamati a incontrarsi nuovamente in teatro non per replicare vecchi schemi ma per ripensare insieme la propria relazione. Una rivoluzione che non genera nessun immediato stravolgimento esteriore, perché la quota di cambiamento generata da ogni individuo è un atomo, una particella. Ma che se ognuno nel suo piccolo si impegna a fare la propria parte, sarà pacifica ma implacabile.
Giovanni Pigliacelli